L’intelligenza emotiva

Che cos’è, perché determina il nostro ben-essere?

Pubblicato su “Medicina Naturale” n. 130 – 2014

Con il termine “Intelligenza Emotiva” si intende un aspetto dell’intelligenza legato alla capacità di gestire in modo consapevole ed efficace le proprie emozioni per costruire relazioni costruttive basate sulla comprensione reciproca.

Le origini dell’intelligenza emotiva sono abbastanza recenti, risalgono al 1990, l’anno in cui viene nominata per la prima volta da due professori americani di psicologia: Peter Salovey e John Mayer. Il loro articolo, intitolato Emotional Intelligence[1], proponeva diversi modi in cui portare l’intelligenza nella sfera delle emozioni, invece di considerare “emozione” e “intelligenza” come un’intrinseca contraddizione di termini. L’eredità del nostro sistema culturale, che è fondato su una concezione dualistica, scinde la mente dal corpo, oppone la razionalità all’irrazionalità, trasmettendoci l’idea di una ragione libera da ogni pressione emotiva e di emozioni slegate dalla logica.

A partire dagli anni novanta molti scienziati e psicologi americani contribuirono con le loro ricerche a mettere in luce la stretta connessione esistente tra la funzionalità emotiva e l’agire razionale. Le scoperte scientifiche nel campo delle neuroscienze hanno messo in luce il valore cognitivo delle emozioni, soppiantando completamente quella separazione drastica tra emotività e intelletto che risale a Cartesio e che ha dominato per secoli la storia del pensiero occidentale come principio speculativo da non violare.

Antonio Damasio[2], neurologo di fama internazionale, ha dimostrato il rapporto fra emozione e ragione (nota come ipotesi del marker somatico) affermando che l’emozione fa parte del circuito della ragione e contribuisce al processo del ragionamento. I marker somatici informano la mente della presenza di un’emozione e rendono più veloce il processo decisionale: ad esempio, le sensazioni fisiche sgradevoli associate alla paura ci aiutano ad evitare molto rapidamente le situazioni di pericolo. I soggetti che non percepiscono più questi marker non hanno più paura, il che può essere un vantaggio, ma anche un grosso rischio.

L’indagine di Damasio sui pazienti neurologici, nei quali lesioni cerebrali avevano menomato l’esperienza dei sentimenti, ha evidenziato, oltre ad alterazioni del comportamento, un deficit nell’attività decisionale nonostante le altre capacità cognitive fossero rimaste inalterate. E’ emersa l’incapacità di prendere decisioni razionali ed efficaci per la loro vita personale e sociale, come, ad esempio, un comportamento sociale adatto alle circostanze. In altri termini, queste persone hanno perso la capacità di provare emozioni, pur conservando intatte tutte le altre facoltà. Il loro umore è sorprendentemente uniforme, sono spesso di piacevole compagnia, ma incapaci di porre delle priorità nella vita o di sentirsi motivati da un progetto.

Non sanno più cosa preferiscono, non riescono a scegliere tra diverse soluzioni di un semplice problema, anche se sono in grado di fare valutazioni o analisi costi/benefici complesse e talvolta spossanti. Sul piano affettivo hanno atteggiamenti contrastanti: manifestano disinteressamento nei confronti degli altri oppure eccedono nella confidenzialità, ma hanno gravi difficoltà a riconoscere lo stato emotivo delle altre persone, cosa che fa loro commettere errori di tatto e di giudizio.

Questi pazienti rappresentano esempi estremi e permanenti di ciò che succede a tutti, di tanto in tanto: commettere errori perché non siamo riusciti a riconoscere le nostre emozioni o perché non abbiamo saputo comprendere quelle degli altri. La nostra emotività, infatti, trasmettendoci informazioni cognitive e valoriali, condiziona il processo di decisione in modo del tutto manifesto (sensazioni viscerali) oppure nascostamente, come nel caso dell’intuizione. In questo caso, l’emozione produce la conclusione di un processo cognitivo in modo così rapido e diretto che non si ha consapevolezza di tutti i passaggi logici immediati che vi hanno condotto.

Della stessa opinione è Nussbaum,[3] quando afferma che le emozioni ci influenzano nel valutare il rapporto tra noi e il mondo. La teoria della Nussbaum,[4] mette in luce che il contenuto cognitivo delle emozioni ha carattere valutativo, perché appartiene al giudizio di chi sperimenta l’emozione: è il punto di vista interno del soggetto. Le emozioni sono molto più che energie naturali prive di pensiero, o mere sensazioni corporee. Esse rappresentano forme personali e, spesso inconsapevoli, di giudizio: la loro esistenza è strettamente connessa al significato che determinati oggetti (cose, persone, eventi) assumono per la persona, in quanto fanno parte del suo universo di finalità. Essere coinvolti emotivamente significa ordinare gli eventi in base al sistema valoriale soggettivo. Infatti le emozioni implicano credenze, spesso molto complesse, che influenzano in modo determinante il benessere personale (il loro contenuto eudaimonistico). Ciò che distingue un’emozione da un’altra, non è tanto l’identità dell’oggetto (può accadere che si tratti sempre dello stesso oggetto), bensì la diversa importanza che gli viene attribuita, ovvero il modo in cui ogni persona lo vede o lo giudica/valuta.

La comprensione delle competenze emozionali include, dunque, una coscienza più estesa che riconosce il potere delle emozioni nella vita mentale ovvero in quei processi neurali e cognitivi che sottendono al ragionamento e alla decisione.

Nel 1995 con la pubblicazione del suo best-seller, Daniel Goleman[5], oltre a divulgare il concetto di educazione emotiva, ne avvalora l’efficacia come misura preventiva per colmare quelle carenze emozionali che sono all’origine dei “mali sociali” (violenze, depressione, suicidi, abuso di droghe, disturbi alimentari). L’apprendimento dell’intelligenza emotiva potrebbe partire dalla scuola attraverso programmi di alfabetizzazione emozionale, come opportunamente li chiama Goleman, in modo da insegnare ai bambini, oltre alla matematica e alla lingua, anche le capacità interpersonali essenziali che sviluppano comportamenti quali l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo, l’empatia.

Oggigiorno queste capacità sono fondamentali proprio come quelle intellettuali, in quanto servono ad equilibrare la razionalità con la compassione. Rinunciando a coltivare queste abilità emozionali, ci si troverebbe a educare individui con un intelletto limitato: un timone troppo inaffidabile per navigare in questi nostri tempi, soggetti a mutamenti tanto complessi. Mente e cuore hanno bisogno l’una dell’altro.[6]

E’ dalla qualità delle nostre relazioni che possiamo leggere il nostro grado di intelligenza emotiva: le “abilità del cuore” ci rendono più equilibrati e intelligenti. Come suggerisce Goleman la felicità dipende essenzialmente dal benessere emotivo e relazionale. La capacità di individuare quali emozioni viviamo nel momento in cui si manifestano ci permette di compiere il secondo passo: riuscire a gestirle in modo consapevole e scegliere il comportamento più appropriato/benefico. Nel caso in cui l’emozione prende il sopravvento sul nostro intelletto sarà lei stessa a guidare le nostre azioni e non sempre il risultato è quello desiderato.

Quando siamo molto arrabbiati e perdiamo il controllo sarà l’aggressività a guidare il nostro comportamento, con risultati dannosi per le nostre relazioni. Aver imparato a gestire la propria rabbia, oltre a renderci consapevoli dei bisogni insoddisfatti, permette alla nostra creatività di manifestarsi o a un problema di comunicazione di essere risolto.

Nel 1997, Salovey e Mayer aggiornarono la loro definizione dell’intelligenza emotiva,[7] che risulta fondata su alcune particolari abilità personali e sociali:

  • l’identificazione corretta dei propri sentimenti nel momento in cui si manifestano (autoconsapevolezza);
  • la gestione della propria emotività (riuscire a calmarsi, a liberarsi dall’ansia, dalla tristezza o dall’irritabilità);
  • la capacità di automotivarsi e ritardare la gratificazione degli impulsi per poter agire in funzione dei propri obiettivi e valori;
  • la percezione corretta delle reazioni emotive degli altri (empatia);
  • la capacità di leggere i messaggi che viaggiano su diversi canali di comunicazione (verbale, corporea, posturale);
  • l’utilizzo di un linguaggio appropriato che facilita il dialogo e la comprensione reciproca, la risoluzione creativa dei conflitti, le relazioni costruttive. Naturalmente le persone hanno sviluppato solo alcune di queste capacità. Può darsi, ad esempio, che alcuni di noi siano in grado di identificare le emozioni che stanno vivendo ma non riescono a gestirle. Altre persone riescono a controllare benissimo la propria irritabilità ma sono soggetti a cambi d’umore repentini, oppure hanno difficoltà a superare le frustrazioni (o a riconoscerle). Con i metodi dell’intelligenza emotiva è possibile trattare diversi ambiti educativi e delle relazioni umane come ad esempio: il rapporto genitori-figli, insegnanti-studenti, relazioni di coppia, relazioni tra colleghi di lavoro e clima aziendale.


[1] pubblicato sulla rivista americana Imagination, Cognition and Personality, New York, 1990.
[2] A. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 1995
[3] Docente di law and ethics all’Università di Chicago.
[4] M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna, 2004.
[5] D. Goleman, Emotional Intelligence (1995); tr. it. Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano 1996.
[6] D. Goleman, Intelligenza Emotiva, cit., p. 8.
[7] Mayer J.D. e Salovey P., What is Emotional Intelligence? in P. Salovey e D. Sluyter, Emotional Development and Emotional Intelligence; Basic Books, New York, 1997, pp.3-31

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